Intervista esclusiva a Oscar Salgado (prima parte): il settore dell’uva da tavola italiana può cambiare, ma serve aggregazione. I mercati asiatici? Un’ottima opportunità.

La redazione di uvadatavola.com ha intervistato in esclusiva assoluta il cileno Oscar Salgado, opinion leader del marketing mondiale dell’uva da tavola. Di seguito la prima parte dell’intervista.

 

Salgado attualmente ricopre ruoli di rilievo nel settore mondiale dell’uva da tavola, tra cui quello di direttore tecnico di Origin Fruit Direct (Rotterdam)e Origin Direct Asia (Shanghái), gruppi specializzati in vendita e marketing di prodotti frutticoli sudafricani e sudamericani in Europa, e di direttore di UVANOVA, Commissione per la Ricerca e lo sviluppo dell’uva da tavola in Cile.

 

L’intervista è stata realizzata grazie alla collaborazione di Agrimeca Grape and Fruit Consulting, società che offre servizi di consulenza tecnica in viticoltura e frutticoltura, in seguito alla partecipazione dell’esperto cileno all’incontro Internazionale “Scelte varietali in viticoltura da tavola” tenutosi lo scorso 17 febbraio a Noicattaro (BA).

 

A Salgado abbiamo chiesto una sua opininione sul settore dell’uva da tavola italiana e quali sono i cambiamenti che il comparto dovrà affrontare per rimanere competitivo all’interno di un mercato mondiale in continua evoluzione. 

 

Qual’è la sua opinione generale sulla viticoltura da tavola italiana?
Non conosco in maniera profonda la viticoltura italiana tanto da poter esprimere una valutazione. È evidente che il vostro settore è caratterizzato da molti produttori, molti esportatori e molti tecnici che sanno di dover cambiare ma che non hanno ben chiaro come poter realizzare questo processo. Tutte le domande che in questi giorni mi sono state rivolte dimostrano che c’è un forte interesse ma al tempo stesso una profonda paura nel cambiamento. La gente non conosce a pieno le nuove varietà e quali sono le dinamiche dei mercati in continua evoluzione. Queste però sono anche le stesse domande che si sono posti i produttori di uva di Cile, Sudafrica, Perù o California. Ovvero come cambiare e cosa fare per poter restare nel mercato? Esiste molta concorrenza nell’industria dell’uva da tavola, non solo in Italia, ma nel mondo intero. Ci sono molti nuovi fattori da considerare che stanno creando competizioni a cui non siamo abituati. Non riusciamo a capire che ciò che avviene in un paese molto lontano, ad esempio in Sud America, potrebbe colpire in qualche modo, prima o poi, anche il settore dell’uva da tavola italiano. Vi faccio un esempio: in California c’è stato un cambiamento radicale nel modo di produrre, nel parco varietale e nelle tecniche post-raccolta. Questo cambiamento ha fatto sì che al giorno d’oggi gli Stati Uniti abbiano due mesi in più per poter commercializzare il proprio prodotto. Ma cosa ha comportato tutto questo? Ha fatto sì che l’uva brasiliana non trovasse più spazio negli Stati Uniti. Un altro esempio: la finestra di produzione cilena è aumentata e si è andata a sovrapporre con quella del Perù o di altri paesi. Questo è quanto avvenuto in Cile, Perù, Stati Uniti, ovvero in quei paesi dove c’è stato il cambiamento. Ed è esattamente quello che sta avvenendo oggi in Italia, che si sta scontrando con una Spagna molto aggressiva che sta impiantando solo varietà di uve seedless.

 

In California, come in tutto il resto del mondo, si è ridotto il numero di produttori di uva ma sono aumentate le produzioni.

Quindi secondo lei è necessario un cambiamento per far fronte non solo alle esigenze del mercato ma anche alla concorrenza di questi paesi che fino ad oggi ci sembravano lontani.
L’Italia non è abituata a questo tipo di concorrenza. Ormai tutti gli anni a dicembre nel vostro paese arriva frutta peruviana, ma cinque-sei anni fa questo non succedeva e la concorrenza peruviana era considerata irrilevante. Pertanto il settore italiano deve cambiare, ha bisogno di impiantare nuove varietà non perché rappresentano la novità ma perché molte di esse producono di più e meglio. Alcune di queste nuove varietà apirene hanno dei problemi, non è facile imparare a gestirle, ma se vengono paragonate a quelle tradizionali presentano certamente dei vantaggi. L’Italia, inoltre, deve imparare a conservare meglio la propria frutta, migliorare le tecniche del post-raccolta e comprendere come usare il materiale di imballaggio. Questo è quanto sta succedendo al vostro settore, che è molto tradizionale e necessita di un’evoluzione. Ma per molti questo non va bene, perchè cambiare ha un costo. L’industria dell’uva da tavola italiana ha molti anni, molti di più di quella cilena o peruviana. Io credo che voi avete a disposizione tecnici, conoscenze, università che possono garantirvi la possibilità di realizzare questo cambiamento. Ma tutti potranno cambiare? Questa è la domanda. Sfortunatamente, in questo processo c’è gente che si fermerà durante il percorso. Ho mostrato durante l’incontro come in USA, Sudafrica, Messico, ecc. si produce più uva ma con meno produttori. Questa è dunque la decisione che bisognerà prendere. Chi sarà disposto a cambiare resterà sul mercato, chi non vorrà cambiare probabilmente si fermerà durante il cammino. È dura e quanto sto dicendo potrà a molti risultare freddo e cinico, però sfortunatamente è quanto sta accadendo oggi in Cile. Tutti quei produttori che non stanno realizzando alcun cambiamento stanno uscendo fuori dal settore.

 

Nel resto del mondo la produzione di uva da tavola è aumentata e ci sono meno aziende ma di grandi dimensioni. L’esatto contrario della nostra realtà, caratterizzata da aziende mediamente piccole e una produzione in calo.
Non è detto che se le aziende sono piccole non è possibile realizzare un cambiamento. Credo che sia questa la sfida che devono capire ed affrontare i vostri produttori, ovvero quella di lavorare insieme. Non so se in una cooperativa o un consorzio, non saprei suggerire la forma di aggregazione, l’importante è che lavorino insieme, producano insieme, comprino insieme e commercializzino varietà di uva insieme. In tal modo diventeranno più efficienti e potranno causare il cambiamento. Ma tutto ciò richiede immaginazione e soprattutto voglia di cambiare. Generalmente l’essere umano cambia quando è in crisi, quando è al limite. In quel momento capisce che deve utilizzare risorse differenti. Questo processo sarà possibile ma anche doloroso in quanto, come vi dicevo, molta gente uscirà dal settore fino a quando qualcuno dirà: “sono un produttore di 5 ettari ma intorno a me ci sono 20 produttori di 5 ettari, insieme potremmo produrre tanto quanto un grande produttore”.

 

Cile, Perù, California, la stessa Spagna ed altri paesi stanno orientando la loro offerta verso i paesi asiatici, stringendo con essi accordi commerciali. Molti esportatori italiani invece vedono l’Asia come un mercato sconosciuto e molto lontano.
Da sempre l’ignoto fa paura. Ciò che non conosci non sai mai come affrontarlo. In Cile produciamo uva “controstagione”, quando nell’emisfero nord è inverno. Tuttavia per noi un mercato che ha aumentato la sua importanza è la Corea, un paese che richiede altissima qualità ed è molto lontano e ad alto rischio. Occorre una settimana per preparare il viaggio, 45 giorni per arrivare a destinazione e almeno due settimane affinché l’importatore venda la frutta. Parliamo dunque di 65 giorni. Si tratta di tanto tempo e bisogna sviluppare una tecnologia adeguata per affrontare il viaggio. Nell’emisfero nord c’è la California che sta esportando verso questi paesi. Ora, l’italiano è meno intelligente, più intelligente o intelligente quanto i produttori californiani che stanno esportando in Asia? Molti di loro sono anche di origine italiana…I californiani esportano in Cina nello stesso periodo in cui il paese asiatico sta raccogliendo la propria uva. Quindi la Cina sta raccogliendo uva e nello stesso tempo gli americani gliela stanno vendendo. Bisogna capire come e perché gli americani riescono a vendere il proprio prodotto. È come vendere ghiaccio ai pinguini o sabbia ai cammelli, ma si può fare. Perché? Perché il consumatore cinese vede nell’uva americana molte cose. Per i cinesi ciò che è americano è diverso, è più sano e ha dietro una storia. Ma l’Italia non ha anche alle sue spalle una storia? Secondo me voi non avreste bisogno di fare branding come gli americani. Voi italiani producete le scarpe, le auto e gli abiti migliori. C’è qualcuno al mondo che non conosca Sofia Loren o la pizza? Avete gli elementi di marketing adatti per poter dire: “signori qui produciamo uva sin dai tempi in cui i leoni si mangiavano i cristiani”. Al mercato cinese piace il branding, piace il marchio. Esiste, quindi, il modo di incontrare il successo ma è necessario conoscerlo. Così come è necessario realizzare un accordo tra i paesi.

 

Quindi i paesi asiatici hanno effettivamente le carte in regola per diventare i mercati di destinazione per le nostre uve? Rappresentano una reale opportunità per il nostro settore?
Questo l’ho spiegato durante l’incontro. Il mercato asiatico è lontano ma sta crescendo, l’Europa invece sta diventando vecchia, consuma meno. In Asia, a differenza di quanto avviene in Europa, la gente povera sta entrando a far parte della classe media, si sta arricchendo. La domanda è: cosa avviene nei paesi poveri quando la gente possiede più denaro? L’europeo se oggi guadagnasse di più lo spenderebbe subito in un’auto, in un televisore o in una casa più grande. Ma non cambierebbe la sua dieta, non mangerebbe più carne o più uva di quella che mangia attualmente. In Europa si mangia bene sin da quando terminò la guerra. Al contrario una persona povera che sta per far parte della classe media cambia subito la sua dieta e non pensa all’automobile o al televisore, ma a mangiare meglio. Questo è il primo cambiamento che realizza. Ma dove sta crescendo la classe media? Sicuramente non in Italia, in Inghilterra o in Germania ma in Cina, in Indonesia, in Malesia, in Tailandia, a Taiwan, in Vietnam, in India e in Corea. Sono questi i mercati che devono rappresentare una destinazione importante per i nostri prodotti. Parte della produzione deve essere destinata a questa nuova classe media. Se non lo farà l’Italia, ci penserà la Spagna o la Polonia con le mele. Dunque ci sono delle possibilità in questi mercati ma non è facile entrarci, bisogna innanzitutto capire cosa consuma questa nuova classe media. È importante però sapere anche quanta produzione destinare ai mercati interni e quanta a quelli esteri. L’80% dell’uva italiana deve restare in Italia o essere esportata? Capire questo è fondamentale perché attualmente gli Stati Uniti esportano circa il 45-46% della loro frutta. Ma cosa si è verificato? Che togliendo frutta dal mercato locale, i prezzi hanno avuto una tendenza all’aumento. Queste sono le scelte da prendere per programmare un cambiamento.

 

La seconda parte dell’intervista. CLICCA QUI

 

Fonte: uvadatavola.com

 

Data di pubblicazione: 10/03/2015