Nella filiera cerasicola non c’è nord contro sud, la differenza c’è tra chi si adatta al mercato e chi no

Quello svoltosi a Rimini è stato un evento di respiro internazionale con il gotha del settore. Una grande occasione per promuovere la cerasicoltura della regione, con le visite in campo nei vivai, nelle aziende agricole e negli stabilimenti di lavorazione delle ciliegie, in un comprensorio che conta circa 3mila ettari dedicati alla cerasicoltura. Un’attenzione che mette sotto i riflettori una regione, penalizzando altre, forse ancora più importanti per volumi e superfici coltivate, basti pensare che la Puglia è la regione maggior produttrice di ciliegie in Italia, e detiene con le sue quasi 32mila tonnellate il 35% della produzione italiana, il 62% delle superfici investite pari a circa 19mila ettari di terreno ed un fatturato di circa 22 milioni di euro.

In occasione della kermesse riminese abbiamo scambiato due battute con Luigi Catalano, uno dei maggiori esperti nazionali del settore.

Non ritiene che sul fronte della promozione sui mercati portare avanti una narrazione incentrata solo su un territorio e su varietà sia controproducente per il sistema cerasicolo italiano?

Luigi Catalano

Invece di recriminare e di cadere in sterili polemiche campanilistiche, sarebbe il caso di riflettere su come il distretto cerasicolo emiliano romagnolo sia riuscito a far sistema in ambiti come ricerca, sperimentazione, vivaismo, produzione, servizi alla commercializzazione ed attenzione delle istituzioni.

Il mercato oggi richiede ciliegie di grosso calibro, croccanti e scure. Queste caratteristiche sono lontane anni luce dalle storiche varietà coltivate in Italia: Bigarreau Moreau e B. Burlat, Giorgia, Ferrovia, Duroni variamente denominati. Quindi c’è la necessità di un rinnovamento varietale, di concepire impianti tali da permettere l’adozione delle tecniche di coltivazione e di protezione più moderni e funzionali al raggiungimento dei risultati attesi. Questo sta succedendo in Emilia Romagna, Veneto ed anche nella cerasicoltura montana che, seppur vanti pochi ettari, mostra impianti ad elevate tecnologie.

Da noi in Puglia che succede?

Bisogna premettere che i modelli sviluppati altrove non sono ripetibili tout-court nelle condizioni pedoclimatiche pugliesi, dove bisogna esser consapevoli di alcune limitazioni: impossibilità all’utilizzo di portinnesti nanizzanti e semi-nanizzanti nelle storiche aree produttive (a parte casi specifici) per la natura del terreno e scarsezza della risorsa idrica. Quindi difficile pensare a sistemi ad alta densità che portano con sé alcuni vantaggi nella gestione dei nuovi impianti, ma che richiedono grande perizia professionale. Oggi il Prunus mahale rimane l’unico portinnesto performante disponibile e bisogna programmare i nuovi impianti tenendo conto delle sue caratteristiche

Negli ultimi anni in Puglia, ci sono stati solo pochi esempi di nuovi impianti innovativi, non solo per il rinnovo varietale, ma soprattutto nelle forme di allevamento più performanti e di facile gestione.

Nella regione che ha inventato la protezione per l’uva da tavola, non ci sono state misure del PSR specifiche per favorire l’innovazione e le coperture degli impianti, e questo è emblematico, da una parte, per l’attenzione che le istituzioni hanno sul comparto (salvo poi essere tra qualche giorno tirate in ballo perché la grande produzione attesa, con frutti di piccolo calibro, avrà quotazioni mercantili non soddisfacenti); dall’altro lato bisogna anche sottolineare l’inconsistenza di proposte dal mondo della produzione.

La ricerca universitaria di Bologna ha messo a punto nuove varietà e da noi?? – a parte il lavoro di selezione di materiale di propagazione sano e di studi sulla difesa da fitopatie in campo e post-raccolta??

Quanti tecnici operatori pugliesi erano presenti al simposio, che ha presentato e divulgato interessantissimi risultati tecnico-scientifici che, se correttamente applicati, renderebbero la coltura più competitiva anche in Puglia?? Veramente pochi, e questo è un altro segnale di disattenzione generale, ma anche culturale.

Ricordiamo gli ingenti investimenti fatti dalle packing house per condizionare il prodotto, che necessitano di grandi volumi produttivi con flussi continui e costanti. Il ciliegeto Puglia non è più in grado di garantire ciò, tradendo gli investimenti fatti da un anello della filiera.

Le condizioni di innovazione, rafforzamento e rilancio del settore ci sono tutti, ma bisogna avere la convinzione di produrre ciò che il mercato vuole e non ciò che io penso sia il meglio.

Ritiene che sia strategico elaborare un piano di promozione cerasicolo nazionale o i mercati hanno bisogno di una narrazione incentrata su singoli territori e varietà con una identità ben precisa?

Parlare di piano nazionale è un azzardo a causa della dislocazione produttiva in aree completamente diverse tra di loro e distanti anche 1000 km, che necessitano di soluzioni tecniche – portinnesto, varietà, forme e tecniche di allevamento, differenti.

Ci dovrebbe essere una strategia nazionale che sfrutti la peculiarità di produrre per oltre 3 mesi (da fine aprile ai primi di agosto), che veda la partecipazione di produttori e operatori commerciali. I singoli territori possono promuovere specifiche varietà contraddistinte da particolari caratteristiche, ma è cosa diversa dal prodotto nazionale.

La Ferrovia, salvo pochi casi, non potrà mai raggiungere calibri 30+ come oggi richiesto dal mercato, perché geneticamente non ha queste caratteristiche. Quando la si gonfia con tecniche anche non ammesse, perde le proprie caratteristiche di pregio. Sarebbe invece più utile e funzionale una sua promozione come frutto di un territorio che, seppur di pezzatura inferiore, è giacimento di salubrità, genuinità, tradizione del territorio, ecc..

Non ha paura che da oggi ogni Regione punti a promuovere in maniera autonoma i propri territori e le proprie varietà sui mercati, ingenerando un ambiente entropico di informazioni ed un dispendio di risorse pubbliche?

Basta con le recriminazioni. Accettiamo queste logiche per altri prodotti, non vedo perché le ciliegie debbano sfuggire. Ripeto, questo può valere per produzioni tipiche legate al territorio, diverso è il discorso per una ciliegia italiana che può essere prodotta nel rispetto di una strategia nazionale che miri alla presenza sui mercati per più tempo possibile.

 

A cura della redazione di Foglie TV

Data di pubblicazione: 19/05/2022